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Serve lo psicologo in ambito internazionale?
di Luca Modenesi, pubblicato il 14/09/2006, fonte Simposio, Simposio Anno 2, numeri 2-3, ottobre 2006
tag: psicologia emergenza, psicologi per i popoli, missione internazionale
Nel mio attuale soggiorno italiano, sono stato ospite della Scuola di Psicoterapia Comparata ove ho tenuto un seminario incentrato sulla mia esperienza di lavoro come Psicologo nei progetti post tsunami svolti dalla ONG italiana “GVC”, a Tricomalee, in Sri Lanka. In tale occasione mi è stata posta da Patrizia Adami Rook la seguente domanda: “Serve lo Psicologo in ambito internazionale?”. Raccolgo la provocazione e provo a rispondere.
Chiedere ad uno Psicologo, rientrato in Italia dopo una missione all’estero di dodici mesi, se lo Psicologo serve in cooperazione internazionale, appare poco più che un esercizio retorico. Tuttavia si può tentare l’avventura di definire il contesto o i contesti entro i quali ha senso intervenire e le condizioni minime che dovrebbero essere soddisfatte. (figura riconosciuta entro il progetto, compiti definiti o definibili, conoscenza del contesto socio/culturale di intervento o appoggio a personale locale in grado di fare da ponte mediatore).
I contesti di intervento possono essere schematizzati come: emergenza, post-emergenza (1), assistenza umanitaria e sviluppo. Ad ogni scansione temporale corrispondono metodi, obiettivi e tecniche di intervento diverse.
La Psicologia in “situazioni” di emergenza (2) si è affermata negli ultimi dieci anni e trova un ampio campo di applicazione negli interventi rapidi successivi a catastrofi, disastri o incidenti (3). Allo stato attuale esiste un ampio dibattito attorno alle metodologie e gli approcci maggiormente efficaci per rispondere a queste specifiche situazioni di crisi. Molti autori concordano che la diagnosi di PTSD (4) e il punto di vista traumatologico non forniscano risposte adeguate soprattutto in aree geografiche extra occidentali. I nodi critici sono relativi alle differenze culturali e alla visione di malattia o danno sviluppata da altre culture (5). Sotto questo profilo appaiono molto più efficaci ed interessanti le possibilità di azione in fasi post-emergenziali. Questi interventi si collocano in uno spazio tempo in cui le “prime necessità” sono già state affrontate. Molti la considerano una zona grigia (6) di difficile collocazione tra la fase acuta dell’emergenza e la fase dello sviluppo, un periodo di transizione connotato da instabilità e caotismo. Si tratta, in questi casi, di interventi centrati su aspetti psico-sociali in cui l’attenzione non è focalizzata sull’individuo o aspetti meramente clinici ma l’intervento prende in considerazione la comunità, o particolari target vulnerabili entro la comunità (7). L’ottica generale è quella di riavviare, per quanto possibile processi di “normalizzazione” (8). In questa ottica sono stati sviluppati numerosi progetti di riabilitazione psicosociale in Sri Lanka da varie ONG italiane nelle aree colpite dallo Tsunami.
Le criticità da affrontare in questa fase sono legate soprattutto alla possibilità di avere accesso alle strutture sociali del Paese in cui si interviene così come ad una relazione con il personale locale, sufficientemente qualificato, che permetta di costruire sinergie tra il sapere portato dagli attori internazionali e la conoscenza e l’esperienza quotidiana degli operatori del territorio. Un percorso che richiede collaborazione, flessibilità e adattamento in quanto per risultare efficaci tali progetti necessitano di una “taratura” in termini socio-culturali, il rispetto e la conoscenza dell’altro e delle sue modalità di essere nel mondo. Altri autori (9) preferiscono distinguere tra interventi di emergenza ed interventi di assistenza umanitaria, intendendo questi ultimi come quelle situazioni in cui gli operatori siano chiamati a sviluppare aiuto ed assistenza in casi di migrazioni forzate, permanenza in campi profughi, situazioni post-belliche dove è importante riattivare le forme di resilienza delle comunità colpite, le loro risorse così come le loro capacità di coping. L’ambito di intervento è anche in questo caso psicosociale, tuttavia se nello stesso tempo l’azione politica non prosegue nella stessa direzione si rischia di sviluppare solamente programmi di contenimento di un disagio sociale e collettivo entro uno spazio in cui l’emergenza umanitaria si cronicizza fino a diventare uno stile di vita (10).
L’ultimo contesto è legato ad una scansione temporale lunga ovvero i progetti di cooperazione allo sviluppo. In questo ambito le possibilità di intervento degli psicologi variano enormemente e sono più legate alle specificità di progetto piuttosto che al contesto operativo di intervento. In questi casi, infatti, non si tratta più di interventi più o meno brevi, miranti a “tamponare una emergenza” o ripristinare una situazione al fine di aiutare le persone colpite nel processo di normalizzazione, ma si tratta di agire in un ambito interculturale dove almeno due culture avviano un dialogo ed una conoscenza reciproca entro un quadro di obiettivi definiti. Progetti di sviluppo pluriennali che costituiscono un avventura ed una sfida notevole.
In Italia negli ultimi quarant’anni è stata sviluppata una cultura, una conoscenza approfondita ed una capacità di sviluppo di servizi sociali elevata. In questo settore, quindi, mi sembra si possa agilmente sostenere la possibilità di interventi efficaci che traggano radici da un sapere consolidato entro un percorso socio-culturale.
In questa ottica c’è lo spazio e il tempo per costruire un percorso interculturale bidirezionale. Se da una parte si possono offrire saperi, metodologie ed esperienze, dall’altro la messa in prova di tali aspetti in una cultura ed una società diversa costringe a fare alcuni adattamenti e revisioni che possono diventare altrettanti stimoli, spunti di riflessione o criticità nuove capaci di generare un circuito di feedback valido anche in Italia.
In conclusione le possibili funzionalità dello Psicologo in ambito internazionale sono molteplici, tuttavia vorrei porre l’attenzione anche su di un ulteriore aspetto che a mio avviso permette di dare ancora maggior peso alle argomentazioni fin qui sostenute. In ambito di interventi internazionali si può vedere lo Psicologo come una sorta di “messaggero”. Un moderno nomade il quale grazie agli strumenti di cui dispone, o dovrebbe disporre, può transitare conoscenze, esperienze e saperi tra diverse culture superando le attuali dicotomie che ci vorrebbero chiudere in facili schieramenti di buoni e cattivi, amici o nemici, in una dimensione di reale e attivo confronto con l’altro e fuori da quel campo di demarcazione che vorrebbe il modello occidentale come primario o migliore rispetto ad altri.
Le esperienze di lavoro lontano dall’Europa possono permettere, un allargamento dell’orizzonte ed una capacità di ricostruire metodologie e tecniche avvicinando sempre più antropologia, etologia e Psicologia. Percorsi che sono già attivi ma che dati i recenti mutamenti e scambi tra società umane rendono sempre più evidente ed importante la dimensione di confronto tra saperi e pratiche sviluppate in aree molto distanti ma capaci di produrre nuove o più estese forme di conoscenza.
Note
1. La divisione tra emergenza e post emergenza è quasi artificiosa. Si è ritenuto di utilizzarla per dare una scansione temporale tra una fase meramente assistenziale focalizzata sui bisogni primari ed una fase a medio termine in cui, soprattutto in conseguenza di catastrofi, è il senso della comunità, la ricostruzione dei significati tra il prima e dopo evento che diviene focus dell’intervento.
2. M. T. Fenoglio, la comunità nei disastri: una prospettiva psicosociale reperibile al sito: www.psicologiperipopoli.it
3. In italia sono noti gli sforzi e la stretta collaborazione tra protezione civile e le associazioni degli psicologi dei popoli.
4. Si veda anche le critiche di M. Van Ommeran ed altri in: www.who.int
5. Gli studi dell’etnopsichiatria ed in particolare di Beneduce in questo campo sono illuminanti.
6. Fase post emergenza, zona grigia tra emergenza e sviluppo: in ambito di cooperazione internazionale esiste un grosso dibattito e una certa dose di ambiguità in questi termini, quasi che sia difficile stabilire dei confini. Molto spesso tale condizione è legata al terreno di lavoro, alle criticità e alle ambiguità stesse del contesto geo-politico.
7. Si veda a questo proposito: www.fao.org dove si evidenza la scarsa attenzione rivolta ai problemi di gender base violence nei progetti emergenziali di allestimento dei campi di accoglienza provvisori.
8. Per normalizzazione si vuole intendere la ripresa di attività legate al quotidiano, così come ad esempio le attività scolastiche o le funzioni religiose.
9. P. Castelletti, la Psicologia dell’assistenza umanitaria, reperibile al sito: www.psicologiperipopoli.it
10. Si veda a questo proposito la storia e gli sviluppi dei diversi campi profughi nel mondo e la creazione dei moderni luoghi di esclusione, in Città Nude di C. Boano e F. Floris; ed. F. Angeli 2005