Iscrizione
Servizi
- Visibilità (reti on line)
- Aggiornamento (ECM)
- Consulenza
- Riconoscimento titoli
- Servizi informativi
- Mailing list
Archivio
Convenzioni
Riflessioni giuridiche sul tema dell'analisi laica
di Nicla Picchi, pubblicato il 16/12/2003, fonte Simposio n° 07, Primavera 1997
tag: psicoanalisi, psicoanalisi laica, psicoterapia
L'articolo che segue costituisce il testo del mio intervento al convegno internazionale Psicanalisi laica organizzato dalla Scuola di Psicanalisi Freudiana e della rivista Thélema, a Milano, il 12 e 13 aprile di quest'anno. L'interpretazione da me sostenuta in tema di rapporti tra psicanalisi laica e diritto è strettamente collegata alla proposta teorica formulata dalla Scuola di Psicanalisi Freudiana sulla formazione dell'analista, ampiamente articolata nel corso del convegno richiamato. Essa risponde essenzialmente alla questione che sottende tutto il dibattito intorno allo statuto giuridico dello psicanalista: A che titolo egli ha diritto di pretenderne uno sui generis?
Il dibattito svoltosi lungamente all'interno della Scuola di Psicanalisi Freudiana ha messo in luce come la risposta più chiara, coerente, razionale ed autorevole cioè quella più sostenibile sia ancora oggi quella elaborata da Freud. Essa considera fondatamente ossia tramite argomentazioni altamente sofisticate e a tutt'oggi non confutate che la psicanalisi, nata come terapia in ambito neurologico, ha gradualmente evoluto in una nuova scienza, definita epistemicamente attraverso un'ontologia regionale, ossia attraverso la costruzione e la giustificazione di un'oggettività specifica.
Per esplicita dichiarazione di Freud, l'inconscio non è infatti da concepire come l'aspetto noumenico della mente ma come l'oggettivazione scientifica, la legalizzazione, dei fenomeni di discontinuità e, in generale, delle catastrofi della coscienza. In questo senso si può dire che la metapsicologia, ossia la teoria freudiana dell'apparecchio psichico, rimane il campo elettivo di definizione dell'oggettività psicanalitica.
Quanto precede implica che la psicanalisi non può essere definita semplicemente attraverso la propria terapia: essa non è una terapia, ma ha, al suo interno e come parte propria, una terapia che, in quanto tale, non può in alcun modo esserne resa autonoma, salvo rassegnarsi a perdere tanto la propria pregnanza teorica quanto la propria dimensione sperimentale.
Infatti, la specificità della terapia psicanalitica consiste soprattutto nel costituire il dispositivo sperimentale di verifica della teoria. Su questo punto Freud ha ampiamente insistito, in particolare attraverso la cura che ha messo nel dimostrare come in essa si possa discriminare con certezza ciò che è effetto di verità da ciò che è invece effetto di suggestione. Ciò distingue la terapia psicanalitica da ogni altra forma di psicoterapia oggi esistente in quanto il suo obiettivo ultimo resta sì la guarigione del paziente, ma questa non può essere ottenuta che salva veritate e fino al punto che, ove si tratti di un'alternativa tra le due, è la seconda a dover essere scelta.
Ne consegue che lo psicanalista non è essenzialmente ed esclusivamente uno psicoterapeuta ma, in quanto ricercatore e solo in quanto tale, anche uno psicoterapeuta. La pratica della terapia analitica non può, in nessun suo punto, essere emancipata dalla ricerca in quanto proprio quest'ultima costituisce la giustificazione fondamentale del suo esercizio. Così, la formazione dell'analista non può non essere una formazione assolutamente specifica, dunque essenzialmente non medica né psicologica né altro.
Formare uno psicanalista non vuol dire affatto formare un medico o uno psicologo e poi insegnargli a praticare la terapia analitica. Questo innanzitutto per il fatto capitale che gli ambiti del sapere che costituiscono materie di apprendimento obbligatorie per lo psicanalista non coincidono con quelli che stanno alla base della formazione medica o psicologica. Infatti, la lista degli studi indicati da Freud come costitutivi della competenza psicanalitica vanno come è noto dalla sociologia alla mitologia comparata. Quella psicanalitica non è una funzione di seconda, bensì di prima istanza, e ciascun giovane che voglia cimentarvisi ha il diritto di vedersela offrire come tale.
Questa nuova figura di scienziato, da lui tenacemente preconizzata, è quel che Freud chiamava uno psicanalista laico.
E' solo dopo aver svolto queste considerazioni che si può rispondere anche alla seconda delle questioni cruciali relative allo statuto giuridico dello psicanalista: Di quale tipo deve essere?
Infatti, non si tratta qui soltanto di regolamentare una professione a sé stante, bensì di regolamentarla tenendo conto del suo oggetto scientifico, ossia del fatto che l'attività di cura è al contempo attività di ricerca. Essa cioè determina anche lo sviluppo di quella scienza speciale che la psicanalisi di fatto è. Non salvaguardare, all'interno della regolamentazione professionale, quel nucleo di libertà da sempre indispensabile alla scoperta e all'innovazione scientifica condurrebbe di fatto a negare, dunque a cancellare, l'essenza stessa di ciò che si vorrebbe soltanto regolamentare.
E' dunque in questo quadro generale che le considerazioni di natura giuridica che sto per svolgere possono dispiegare le loro potenzialità, mi auguro, di chiarificazione razionale.
Parte Prima.
Le professioni autonome possono essere oggetto di apposite previsioni normative statuali, oppure non essere prese in considerazione da norme specifiche, ricorrendo in tale seconda ipotesi la figura delle c.d. professioni non regolamentate. Queste ultime, tuttavia, non sono irrilevanti per l'ordinamento, trovandosi ad essere comunque sottoposte ai normali principi di diritto. Di norma, nella maggior parte dei paesi si ha una situazione di coesistenza dei due regimi.
Da un punto di vista generale, l'intervento dello Stato in materia di regolamentazione delle attività professionali si giustifica mediante il ricorso a due fondamentali basi teoriche: la prima è rappresentata dall'esigenza di tutela di coloro che usufruiscono delle prestazioni professionali, contro le conseguenze negative che possono derivare da interventi effettuati da persone prive di un'adeguata competenza. L'altra muove da un'istanza dei professionisti stessi, i quali, dal proliferare di soggetti non sufficientemente qualificati, operanti nel loro campo di attività, possono temere una generalizzata sfiducia, nel comune sentire, verso l'intera categoria.
In certi campi, l'intervento dello Stato può avere una giustificazione ulteriore, da rinvenirsi nel principio dell'assistenza sociale: nei sistemi che riconoscono l'opportunità di un supporto statale nella gestione della salute pubblica l'amministrazione è chiamata a contribuire alle spese necessarie all'erogazione dei servizi relativi. Naturalmente, in questi casi lo Stato determina e regolamenta le condizioni del proprio intervento.
Nei Paesi europei (ed in molti Paesi extraeuropei) il disagio psichico è preso in considerazione, anche se con modalità ed a condizioni diverse, dal sistema pubblico di assistenza sociale. In questi Paesi esiste conseguentemente una forma di regolamentazione di certe terapie del disagio psichico, al rispetto della quale è condizionata l'erogazione del relativo supporto statale.
Con specifico riferimento al tema che ci impegna, in nessuno dei paesi oggetto della mia disamina l'esistenza di dette forme di regolamentazione di alcune terapie del disagio psichico ha comportato il generale divieto di pratiche non regolamentate. Tuttavia, rispetto alla psicanalisi, questa circostanza ha prodotto, come vedremo nelle pagine seguenti, conseguenze tutt'altro che irrilevanti. Analizziamo brevemente le situazioni venutesi a creare in alcuni paesi europei.
In Germania, nel 1967 vennero elaborate, in sede istituzionale, alcune Direttive sull'introduzione della psicoterapia analitica, fondata sulla psicologia del profondo, nelle quali, tra l'altro, venivano impartite precise istruzioni, quali ad esempio la previsione del numero massimo di sedute (centosessanta, ampliabile fino a trecento) che l'assistenza sociale avrebbe coperto.
La qualificazione degli psicoterapeuti venne regolamentata in un secondo tempo. Per i medici, si organizzarono nelle università dei corsi di specializzazione, attribuenti le qualifiche di medico psicoterapeuta, e di medico psicoterapeuta e psicanalista. La formazione clinica venne delegata ad alcune istituzioni psicanalitiche, figuranti in una lista ufficiale.
La professione di psicoterapeuta implicava ora un diploma di laurea in medicina o in psicologia. Gli psicanalisti laici si trovarono così ad essere ben presto esclusi dall'organizzazione istituzionale e, di conseguenza, esercitarono esclusivamente attività privata.
All'inizio la formazione, tanto degli analisti che degli psicoterapeuti, era affidata ad analisti titolari di cattedre universitarie. Tuttavia, essendo limitato a quattro il numero delle analisi di formazione che ciascun analista poteva condurre, di fronte al crescente numero di richieste di terapie che il supporto dell'assicurazione sociale aveva generato, molti candidati rinunciarono al conseguimento di una formazione analitica, di norma molto lunga, preferendo una più rapida formazione specifica in psicoterapia.
L'elevato livello degli onorari convenzionati ha fatto il resto: in luogo di esercitare l'attività privata, scarsamente remunerativa, la maggior parte degli analisti ha preferito conformarsi alle direttive statali e, senza troppo interrogarsi sull'esatta natura della propria pratica, definire psicanalisi terapie strutturate in modo da presentare i requisiti fissati dallo Stato per essere rimborsabili.
In sintesi, in Germania, benché non vi siano formali impedimenti all'esercizio laico della psicanalisi, quest'ultima attualmente è quasi completamente inglobata nel sistema del diritto alla salute, organizzato dallo Stato.
Il sistema adottato nei Paesi Bassi è simile a quello tedesco: la professione di psicoterapeuta, riservata ai medici ed agli psicologi, è oggetto di specifica regolamentazione. La formazione viene dispensata dagli istituti di psicoterapia. Al termine della loro formazione, per poter operare nel sistema dell'assistenza pubblica, gli psicoterapeuti devono iscriversi in una lista ufficiale.
Il sistema pubblico è organizzato in centri regionali di salute, sotto la tutela dei c.d. fondi di spesa medica a carattere eccezionale. Le funzioni di tali centri sono definite dalla legge, e l'ottenimento delle sovvenzioni dipende dal rispetto delle condizioni dalla stessa richieste.
L'esercizio privato della psicanalisi è libero, ed il relativo costo è interamente a carico del paziente. Recentemente le compagnie di assicurazioni private hanno incluso la psicanalisi tra i rischi coperti, ma ciò a condizione che la stessa sia praticata da psichiatri. Gli istituti di formazione analitica, che un tempo godevano di sovvenzioni statali, hanno cessato di beneficiarne nel 1987.
In Svezia, non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto al benessere è ascritto alla legge, ed i consigli regionali sono incaricati della sua attuazione pratica. In particolare, essi sono tenuti ad organizzare la prevenzione, ed i c.d. programmi di salute. La psicanalisi è ricompresa in questi programmi, sotto forma di psicoterapia analitica, praticata da medici.
Sia che si svolgano all'interno di centri di cura, o privatamente, le analisi condotte da medici sono di fatto gratuite. Gli psicoterapeuti non medici non sono riconosciuti dall'assicurazione sociale, e le loro prestazioni possono essere rimborsate solo eccezionalmente.
Posto che la psicanalisi si è diffusa nel Paese congiuntamente all'idea di un diritto al benessere, è molto difficile reintrodurvi l'idea di una psicanalisi a pagamento. Di conseguenza, molti dei candidati ad una formazione analitica finiscono per accontentarsi di una formazione psicoterapeutica, che li conduce più rapidamente ad una situazione economica accettabile.
La Francia presenta una situazione a sé stante. In quel paese, né la psicanalisi né la psicoterapia sono soggette a specifica regolamentazione; ciò significa che il loro esercizio privato non è soggetto ad alcuna condizione legale.
Per ciò che concerne specificamente la psicanalisi, pur nell'assenza di disposizioni legislative la stessa è stata oggetto di significative pronunce giurisprudenziali che, dal 1978 in poi, hanno affermato il suo carattere di professione a se stante, per la specificità del suo metodo e del suo oggetto. In questo modo i giudici, invertendo la tendenza interpretativa precedentemente maggioritaria, hanno sancito la piena autonomia della psicanalisi dalla medicina. Di conseguenza l'esercizio della psicanalisi da parte di non medici non è più perseguibile sulla base delle norme che reprimono l'esercizio abusivo della professione medica.
Questo riconoscimento giurisprudenziale della psicanalisi come attività professionale indipendente ha fatto si che la stessa fosse esplicitamente ricompresa, nella disciplina tributaria, fra le professioni autonome, godendo, in questo modo, di un riconoscimento legislativo indiretto.
Nel 1983, la Direzione generale delle imposte ha concesso che certi psicanalisti potessero beneficiare dell'esonero dall'IVA previsto per dispensate a persone da esercenti le professioni paramediche.
Questa qualifica de facto è stata confermata, nel 1989, dai lavori di una commissione creata dal ministero della Sanità, a seguito dei quali sono stati esonerati dall'IVA, sulla base del medesimo fondamento, gli psicanalisti non medici e non psicologi figuranti in una lista formata dalla commissione stessa.
Il riconoscimento della psicanalisi come professione paramedica è stato pienamente confermato, in ambito giuridico, a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato del 4 maggio 1990, nel procedimento Associazione freudiana e altr. La sentenza in esame annulla l'esonerazione dall'IVA riconosciuta dalla Direzione generale delle imposte agli analisti compresi nella lista di cui sopra. Nella motivazione è esplicitamente affermato che la psicanalisi rientra tra le professioni paramediche, vale a dire quelle che dispensano cure al di fuori della medicina: l'esclusione dall'esonero è giustificata sulla base della constatazione che la psicanalisi non possiede uno dei requisiti che la legge richiede per beneficiare dell'esonero stesso, vale a dire quello di essere una professione paramedica regolamentata.
Si può dunque affermare che in Francia la psicanalisi ha lo statuto giuridico di una professione paramedica non regolamentata.
Dal punto di vista dell'assistenza sanitaria, solo gli psicologi sono autorizzati a lavorare nelle istituzioni, dove possono condurre psicoterapie sotto il controllo di un medico. Queste ultime, se effettuate privatamente (vale a dire fuori dai centri statali o convenzionati), non sono rimborsabili. Alcune assicurazioni private prendono in carico le psicoterapie, purché condotte da psichiatri.
La sintetica disamina della situazione riscontrabile nei paesi sopra considerati, ci induce ad alcune riflessioni. La prima è che l'esistenza di una regolamentazione delle psicoterapie, qualora la stessa sia finalizzata ad una copertura dei costi da parte dell'assistenza sanitaria, pone gli psicanalisti di fronte alla non facile scelta tra il mantenere la totale autonomia quanto alla loro pratica, rimanendo in tal modo esclusi dal sistema pubblico, e il cercare forme di compromesso che consentano di far rientrare detta pratica fra quelle rimborsabili.
Quest'ultima posizione, che certamente offre il vantaggio di garantire agli psicanalisti la possibilità di maggiori entrate economiche, tuttavia conduce a snaturare la pratica psicanalitica, violando molti dei suoi principi basilari. Ciò comporta un'inesorabile assimilazione della psicanalisi alle psicoterapie, non solo nel comune sentire, ma, cosa ben più grave, tra gli stessi operatori.
In secondo luogo appare evidente come gli effetti sopra descritti non siano stati minimamente arginati dall'attiva partecipazione delle istituzioni psicanalitiche alla formazione degli psicoterapeuti che, al contrario, può solo averli favoriti.
Le ragioni di ordine pratico che possono indurre un soggetto a vestire alternativamente la giacca dello psicanalista o dello psicoterapeuta, o a chiamare psicanalisi una terapia costruita sulla base delle richieste statuali sono comprensibili. Ma è innegabile che ciò rappresenti un gravissimo pericolo per la sopravvivenza della psicanalisi.
Veniamo alla situazione normativa del nostro paese. Come è noto, la legge 18 febbraio 1989, n. 56, definisce e regolamenta la professione di psicologo e l'attività di psicoterapeuta. Oggi in Italia, per potersi dire psicologo, un soggetto deve essere iscritto all'Ordine degli psicologi, istituito dalla legge in oggetto. Inoltre, per esercitare la psicoterapia, devono sussistere ulteriori requisiti, vale a dire il conseguimento di una specifica formazione professionale, da acquisirsi dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia (...)
La legge in oggetto non opera alcun riferimento diretto alla psicanalisi, che nel testo non è mai neppure menzionata. Tuttavia, il tentativo operato dagli Ordini degli psicologi di alcune città di voler considerare la psicanalisi ricompresa nella loro sfera di intervento esclusivo, pur nella sua assenza di sostegni argomentativi, ci costringe ad argomentare a contrario.
In merito all'opportunità o meno di ricomprendere la psicanalisi nell'ambito della legge sulla professione di psicologo si sono espressi diversi parlamentari, nel corso dei lavori preparatori della legge stessa. Ripercorriamo rapidamente alcuni dei passaggi salienti dell'iter dei lavori.
Il 12 maggio 1988 la Commissione XII Affari Sociali della Camera iniziò la discussione intorno a tre proposte di legge concernenti l'ordinamento della professione di psicologo: quella del senatore Ossicini ed altri (2405), già approvata dal Senato; quella dell'on. Armellin e altri (483), e quella dell'on. Gelli e altri (1205).
L'on. Bianca Gelli, nella seduta della Commissione del 1° giugno 1988, ebbe modo di precisare: Avviandomi alla conclusione, tendo a sottolineare come questo testo non pretenda di andare oltre il compito che si è dato (la regolamentazione giuridica della professione di psicologo), nel senso che non vuole entrare nel merito (come da alcuni invece paventato), né peraltro potrebbe, della dimensione della psicanalisi latamente intesa, cioè come strumento di conoscenza e codice di lettura del reale nel suo complesso. E' augurabile che l'elaborazione, la riflessione e la ricerca in quest'ambito rimangano libera prerogativa di singoli, o di associazioni nazionali o internazionali, sia che i loro percorsi incontrino o meno il mondo universitario.
Nel corso della stessa seduta, l'on. Luigi Benevelli, intervenendo sul tema della psicanalisi, si espresse nei termini seguenti: (...) Esiste poi il problema di non schiacciare e di non confondere la questione delle psicoterapie con quella relativa ai percorsi, agli addestramenti psicanalitici, che costituiscono ancora un altro versante.
Nella seduta dell'8 giugno 1988, l'intervento dell'on. Gigliola Lo Cascio Galante sottolinea con maggiore evidenza la distanza tra le figure dello psicologo e psicoterapeuta da un lato (figure che la stessa ritiene difficilmente scindibili), e quella dello psicanalista dall'altro: (...) ho difficoltà ad operare una distinzione così netta tra le due identità professionali psicologi e psicoterapeuti che invece si è deciso, per una serie di opportunità, di dover distinguere. La figura dello psicoterapeuta è stata individuata e precisata, da alcuni anni e soprattutto in Italia, nel tentativo di creare uno spazio intermedio tra lo psicanalista e lo psicologo (...).
Nella seduta del 9 giugno 1988 venne deciso di affidare ad un Comitato ristretto l'esame delle tre proposte di legge presentate sul tema. Alcuni mesi dopo il comitato ristretto elaborò un testo unificato, presentato alla Commissione nella seduta del 27 ottobre dello stesso anno. Il testo della legge Ossicini originariamente approvato dal Senato disponeva, all'art. 5 (Requisiti per l'esercizio dell'attività psicoterapeutica):
- Per esercitare l'attività psicoterapeutica, fermo restando quanto disposto dal precedente articolo 3, è necessario il conseguimento dell'abilitazione in psicologia o in medicina e chirurgia mediante l'esame di Stato ed essere iscritto in uno dei rispettivi albi professionali o in entrambi.
- Non è consentito l'esercizio dell'attività professionale in campi della psicologia diversi dalla psicoterapia a chi non è in possesso della laurea in psicologia.
L'osservazione che precede impone almeno due considerazioni: in primo luogo la previsione contenuta nella norma citata ci dà atto della circostanza che il legislatore era perfettamente consapevole dell'esistenza, in quelli che genericamente definisce campi della psicologia, di attività professionali diverse da quella dello psicologo e dello psicoterapeuta; in secondo luogo, l'eliminazione della previsione in esame dal testo definitivo testimonia che il legislatore ha scelto di non limitare l'esercizio delle ulteriori attività professionali, che pur afferiscono al campo della psicologia, diverse da quelle dello psicoterapeuta e dello psicologo.
Né nelle discussioni che fecero seguito alla presentazione del testo unificato, né nella seduta finale di approvazione del testo definitivo (il 18 gennaio 1989) si fece più alcun accenno alla psicanalisi, con l'unica eccezione di un intervento dell'on. Mariella Gramaglia la quale, proponendo un subemendamento all'art. 33 (Sessione speciale di esame di Stato), si espresse nei termini seguenti: Poiché ci siamo occupati solo degli psicologi, abbiamo messo tra parentesi il rilevante problema relativo alla disciplina dell'esercizio della psicologia del profondo (...). Credo che se tali scuole di così alta tradizione storica e di prestigio per tutti noi non potranno essere ricomprese all'interno della disciplina in esame, ne deriverà una sorta di discriminazione nei confronti delle più autorevoli società psicanalitiche del nostro paese, come la SPI, L'AIPA e il CIPA.
Il subemendamento proposto dall'on. Gramaglia mirava ad ottenere che anche ai laureati in discipline diverse da quella in psicologia, e formati presso autorevoli scuole di tradizione almeno decennale fosse consentita l'iscrizione all'albo degli psicologi. L'intervento della parlamentare prosegue nei termini seguenti: Ritengo infatti che coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero rientrare a pieno titolo nella normativa, mentre, attualmente, se fosse approvato il testo in esame, tale possibilità non sarebbe prevista. Il subemendamento in oggetto non venne accolto, sulla base delle seguenti argomentazioni, espresse dall'on. De Lorenzo: (...) con il provvedimento in esame intendiamo istituire una professione basata sulla conoscenza derivante dallo studio di una disciplina, così come è previsto nella norma che definisce la figura dello psicologo. L'on. Gramaglia fa riferimento nel suo subemendamento ai laureati in discipline diverse da quella di psicologia: ritengo difficile ammettere un iscritto all'Albo che sia, ad esempio, ingegnere, matematico o fisico.
Mi sembra di tutta evidenza che il problema posto dall'on. Gramaglia intorno alla questione delle scuole psicanalitiche fosse quella della possibilità, per le stesse, di essere ricomprese nella legge in corso di approvazione. Il timore che mosse tale presa di posizione è manifesto e dichiarato: vale a dire la discriminazione che si sarebbe operata nei confronti delle società psicanalitiche.
Altrettanto evidente mi sembra il fatto che il mancato accoglimento della richiesta in oggetto non possa, neppure attraverso il più contorto dei ragionamenti giuridici, essere interpretato come divieto all'esercizio dell'analisi laica.
Un simile tentativo interpretativo sarebbe forse stato possibile se il secondo comma dell'art. 5 dell'originaria proposta Ossicini fosse stato trasposto nel testo definitivo. Ma così non è.
Neppure a tale risultato si può giungere argomentando dalla sentenza resa dalla Corte Costituzionale il 1° marzo 1995 in materia di parità di trattamento fiscale, nell'ambito di un procedimento promosso da un contribuente al fine di ottenere la deducibilità di spese sostenute per psicanalisi precedentemente al 1989. Quando, nella sentenza in esame, la Corte afferma che la questione è manifestamente infondata, per la ragione che nel vigore della legge n. 56/1989 citata, le spese di psicanalisi sono pienamente ammesse in deduzione, come dalla stessa Commissione rimettente del resto riconosciuto, la stessa non può che riferirsi alle pratiche analitiche condotte da soggetti che abbiano i requisiti fissati dalla legge stessa.
In sostanza, la pronuncia in esame non fa altro che sancire, anche in Italia come già nella maggior parte dei paesi europei, il duplice trattamento fiscale della psicanalisi, che può godere o meno della detassabilità prevista per le spese mediche, a seconda dello statuto professionale del soggetto che, nel caso di specie, conduce la pratica psicanalitica.
Vale comunque la pena di sottolineare che la circostanza della mancata ricomprensione della psicanalisi nell'ambito di applicazione della legge Ossicini non equivale certo ad una sorta di riconoscimento, da parte delle Stato, che la psicanalisi non possa essere oggetto di previsioni normative (diverse dalla legge in oggetto).
A seguito dell'entrata in vigore della legge 56/1989 gli psicanalisti si sono trovati di fronte alla scelta se iscriversi o meno tra gli psicoterapeuti, e molti di quelli che ne avevano i requisiti hanno optato per l'iscrizione.
Le ragioni di tale scelta possono essere di diversa natura: certamente la possibilità di incrementare i propri sbocchi professionali, potendo operare anche all'interno delle istituzioni sanitarie, è stata per molti un incentivo determinante. Ma non bisogna sottovalutare anche il timore ingeneratosi in molti psicanalisti, di poter essere perseguiti legalmente per esercizio abusivo della psicoterapia.
Quest'ipotesi, nel nostro paese, non è poi tanto peregrina se si considera l'atteggiamento che, come ricordato sopra, ha assunto l'Ordine degli psicologi. Questo giovanissimo ordine professionale ha, fin dal suo nascere, sposato appieno la posizione ideologica degli ordini di lunga tradizione, vale a dire quella di ampliare quanto più possibile il proprio spazio di monopolio e di difendere interessi corporativi.
Attualmente la legge professionale concernente psicologi e psicoterapeuti si è impantanata nei meandri dei regolamenti e delle circolari ministeriali che dovrebbero rendere effettiva la condizione prima della sua attuazione pratica, vale a dire il riconoscimento degli istituti di formazione.
Su questo tema si giocano interessi economici non indifferenti, posto che gli istituti che otterranno il riconoscimento si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto agli altri. Ciò ha indotto importanti istituzioni psicanalitiche italiane a scendere in campo, al fine di ottenere il riconoscimento dei propri istituti. A ciò si deve aggiungere il fatto che buona parte degli aderenti alle istituzioni psicanalitiche in oggetto ha fatto richiesta di iscrizione all'albo degli psicologi, con buona pace del loro statuto simbolico.
Come vediamo, alle già troppe divisioni presenti nel mondo psicanalitico si è dunque sommata questa, che forse è la più grave, posto che mina la stessa autonomia concettuale della pratica analitica.
Sul tema dei rapporti tra la psicanalisi e le istituzioni, nel 1995, per impulso di un gruppo di psicanalisti, è nato il movimento Spazio Zero, costituito da persone appartenenti a varie scuole e tendenze, che si propongono di insistere, coerentemente con le premesse stabilite da Freud, sul carattere laico, vale a dire né medico né psicologico, della pratica analitica.
Nelle riunioni del movimento, alle quali ho avuto modo di partecipare in qualità di membro della Scuola di Psicanalisi Freudiana, oggetto di ampio dibattito è stato il confronto con la legge Ossicini e, più in generale, lo statuto giuridico della psicanalisi.
In merito a ciò, il discorso si è frequentemente incentrato su due aspetti del problema, che mi sembrano rappresentare la sintesi del disagio di molti dei partecipanti. Da un lato è emersa una generale sfiducia sulla possibilità di addivenire ad una regolamentazione della professione conciliabile con la specificità della psicanalisi, tale da indurre a ritenere comunque preferibile l'attuale situazione di totale assenza di regole. Dall'altro, è emerso un manifesto timore di possibili interventi statuali futuri (come potrebbe essere una regolamentazione professionale imposta coattivamente), o di eventuali iniziative degli Ordini degli psicologi (non ultima la già citata possibilità di azioni per esercizio abusivo dell'attività di psicoterapeuta), che induceva ad auspicare una sorta di tutela da parte delle istituzioni che altro non può essere se non una forma di riconoscimento statuale dello psicanalista.
In sintesi, ciò si traduce in una posizione che vorrebbe vedere sancita legislativamente, e con ciò formalmente legittimata, l'attuale situazione di assenza di norme.
Tradotta in altri termini, questa posizione ha un che di paradossale: praticamente si vorrebbe chiedere allo Stato: emana una regola che stabilisca che io non ho regole. Il che è, ovviamente, impossibile.
Pur riconoscendo lo sforzo di coloro che stanno cercando di animare il dibattito intorno al tema che ci occupa, spesso ho avuto l'impressione che l'impostazione data al problema determini una situazione di empasse, rispetto alla quale non vedo vie d'uscita: il timore di subire una regolamentazione imposta coattivamente genera l'esigenza di elaborare proposte in seno al movimento psicanalitico; tuttavia la convinzione, prevalente nel movimento, che il diritto non possa intervenire senza falsare la natura della psicanalisi, impedisce di affrontare teoricamente la questione di eventuali modalità di regolamentazione conciliabili con la specificità della formazione dell'analista.
Su quest'ultimo punto, vorrei ricollegarmi alla posizione sostenuta da Ettore Perrella circa l'impossibilità strutturale del diritto di pronunciarsi su ciò che, avendo carattere etico, non può che venire falsato da una regolamentazione legale, per svolgere alcune riflessioni di natura teorica in tema di rapporto tra psicanalisi e diritto.
A tal fine è necessario, in primo luogo, interrogarsi intorno al termine diritto.
Glanville Williams, in La controversia a proposito della parola diritto, afferma che ogni tentativo di definire questa parola ci conduce in un labirinto di letteratura metafisica. A questa posizione, unanimemente accettata ed indiscussa, consegue che qualsiasi tentativo, dotato di scientificità, che intenda offrire informazioni sul lemma diritto non può che proporsi i seguenti obiettivi: registrare il catalogo degli usi della parola diritto; ovvero costruire una rassegna delle diverse definizioni di diritto proposte dalle tradizioni culturali (per esempio dalla cultura giuridica, ma anche da quella antropologica e sociologica, o da quella teleologica).
Dall'impossibilità di una definizione ontologica (ciò che è diritto) nasce l'opportunità di concentrare la nostra analisi sulla definizione del diritto accolta dalla cultura giuridica contemporanea dei paesi di tradizione romanistica.
In questa accezione il concetto di diritto è inscindibile da quello di norma giuridica: dobbiamo quindi definire in primo luogo il concetto di norma e, in seconda battuta, stabilire quando una norma sia giuridica.
Ubi societas ibi ius: ogni società, ogni aggregazione umana, non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra le persone che l'aggregazione stessa compongono e senza apparati che si incarichino di farle osservare.
Ciascuna di queste regole, proprio perché concorre a disciplinare la vita organizzata della comunità, si chiama norma; e poiché la cultura giuridica dei paesi di tradizione romanistica considera diritto il sistema di regole da cui è assicurato l'ordine di una società, ciascuna di tali norme si dice giuridica.
La giuridicità di una norma, pertanto, non è la conseguenza di qualche carattere peculiare inerente al suo contenuto, da quanto, cioè, con essa si dispone, ma dipende dal fatto che vada considerata, in base a criteri fissati da ciascun ordinamento, dotata di autorità, in quanto inserita nel sistema giuridico che contribuisce pure essa stessa a formare. Non ha senso, dunque, chiedersi astrattamente se una certa regola sia o non sia giuridica, perché un quesito del genere assume significato solo in quanto sia riferito ad un dato ordinamento e la risposta dipende dal fatto che quella specifica regola sia stata o meno, in quell'ordinamento, dotata di autorità per essere stata inserita in un atto normativo, in un atto, cioè, idoneo a porsi come fonte di norme giuridiche.
Riassumendo: il termine norma, in senso stretto, è sinonimo di regola di condotta, ed il carattere di giuridicità della stessa è qualcosa che attiene alla fonte dalla quale la norma promana, e non afferisce al suo contenuto.
A questo punto appare con evidenza come il sostenere che una certa situazione non possa strutturalmente essere oggetto di diritto equivalga ad affermare che detta situazione sia inesprimibile in termini di regole di condotta.
Appare con altrettanta evidenza il controsenso logico implicito nell'affermazione che la psicanalisi non possa essere oggetto di pronuncia del diritto, ma che la stessa possa essere invece, come da molti sostenuto, oggetto di autoregolamentazione. Infatti anche quest'ultima non può che sostanziarsi in una somma di regole di condotta, ne più ne meno che il diritto, con la sola differenza di promanare da un ordinamento diverso da quello statuale. In altri termini, nell'ipotesi dell'autoregolamentazione, una pluralità di soggetti si accordano fra loro sull'osservanza di una serie di regole di condotta. Rispetto a queste ultime, l'atteggiamento dello Stato può essere di indifferenza oppure di riconoscimento (nel senso che il diritto può attribuire alle stesse un determinato valore giuridico).
E' ora chiaro come il nodo centrale del rapporto tra psicanalisi e diritto verta sul quesito se la formazione dell'analista sia in qualche modo oggettivabile, o se invece si sostanzi in una mera esperienza soggettiva. Qualora si giungesse a questa seconda conclusione, in luogo di un'impossibilità strutturale del diritto a pronunciarsi sulla psicanalisi, sarebbe più opportuno parlare di un'impossibilità strutturale della psicanalisi a farsi oggetto di regole di condotta, e quindi di diritto.
Mentre gli psicanalisti si interrogano (fra loro) intorno alla questione se il diritto possa o meno occuparsi di psicanalisi, il diritto, che non si dimentichi nel nostro paese non ha bisogno di chiedere a nessuno il permesso prima di entrare, sta procedendo tranquillamente nel suo cammino.
Lo scorso marzo il ministero di Grazia e Giustizia ha organizzato una serie di incontri con rappresentanti di tutte le professioni (quelle organizzate in Ordini e Collegi e quelle non regolamentate), al fine di gettare le basi di una riforma generale del settore.
In riferimento agli obiettivi della riforma in esame, il sottosegretario alla Giustizia (Antonino Mirone) ha avuto modi di affermare: Si può pensare ad una legge quadro, in cui stabilire criteri comuni a tutte le categorie, come anche a provvedimenti per ciascun settore. Al momento non si può dire quale soluzione privilegiare. Di certo c'è solo che, da una parte, si deve andare verso una maggiore delegificazione delle professioni regolamentate, in modo da dare vita ad un mercato più snello. Dall'altra, è necessario introdurre un minimo di disciplina nel vasto settore delle professioni senza Albo.
Il ministero della Giustizia è alla ricerca di una soluzione che rappresenti una via di mezzo tra l'iper protezionismo attuale e la deregulation selvaggia. Con un presupposto imprescindibile, però: la deregulation non può far venir meno il controllo pubblico sugli standard minimi di professionalità. Compito della riforma sarà di stabilire quali, anche se al ministero pensano a una legge quadro snella, che fissi i criteri generali e lasci spazio a tipologie diverse di attività autonome. L'intento è di far confluire nel progetto anche le professioni non riconosciute, ormai più numerose di quelle dotate di un Albo. Commenta Stefano Racheli, responsabile dell'ufficio libere professioni del ministero: L'agognato riconoscimento che le professioni non regolamentate aspettano a questo punto assume minor peso. E' inutile, infatti, mettersi in fila per l'Albo se poi si scopre che la formula attuale è da cambiare. L'obiettivo è, allora, di capire quale schema è quello buono.
Parte seconda.
La riflessione intorno al tema di una possibile regolamentazione della psicanalisi è stata fino ad oggi condotta a partire dalla specificità della formazione dell'analista, che Serge Leclaire riassume nei termini seguenti: Dalla specificità della psicanalisi discende una specificità della formazione, che appare di primo acchito come paradossale, paradosso che afferisce al suo stesso oggetto: il processo analitico necessita l'abbandono di tutti gli a priori e domanda una messa in sospensione di tutti i giudizi e di tutto il sapere. (...) La neutralità dell'analista non si ottiene che attraverso un lavoro costante sulle proprie resistenze in riferimento alla propria analisi. E' a questo obiettivo che la sua formazione lo prepara, formazione che, di conseguenza, non può mai essere conclusa (...). La formazione dello psicanalista non può soddisfarsi del savoirfaire o dei modelli: la sua analisi è destinata ad aiutarlo a raggiungere una certa elasticità della sua tecnica e del suo psichismo. Se l'acquisizione di conoscenze non è sufficiente, come trovare una formazione e una procedura di abilitazione che non si fondi su una valutazione delle competenze, ma che possa appoggiarsi sugli effetti dell'analisi stessa?
L'interrogativo che in questo modo ci lancia Leclaire attiene a ciò che l'Autore ritiene essere il carattere specifico dello statuto dell'analista, vale a dire agli effetti della sua analisi. Lascio agli analisti l'approfondimento di questo aspetto centrale del problema.
Per quanto mi concerne, mi limito a constatare che, reclamare una procedura di abilitazione che non si esaurisca in una mera valutazione delle competenze, non equivale ad affermare che le stesse siano in qualche modo sostituibili con gli effetti dell'analisi.
In altri termini, l'innegabile difficoltà di affrontare adeguatamente la specificità dello statuto dell'analista, non legittima, a mio avviso, il permanere di una situazione di totale soggettivismo persino in ciò che attiene alla formazione teorica degli analisti.
Cito F. Baldini: Per quanto riguarda la dottrina, diciamo subito che lo stato ne è tale da non lasciar più neppure intendere quali siano i limiti propri al suo corpus: lo sforzo di conciliare tra loro le teorie e le sottoteorie più diverse al grado del connaisseur ha prodotto ibridi da bestiario medioevale (...).
La scarsa concordanza sul significato dei termini, per non dire sugli stessi concetti fondamentali, che si riscontra tra gli psicanalisti delle varie tendenze, è il risultato di percorsi formativi di contenuto, e di spessore, troppo diverso. Ciò genera un'enorme difficoltà nella prosecuzione del lavoro teorico, oltre che, nell'opinione collettiva, diffidenza e sconcerto nei confronti della psicanalisi stessa.
Per quanto riguarda la pratica, il panorama si presenta, se possibile, ancora più sconfortante.
Cito Jacques Lacan: Quand on observe la façon dont le divers praticiens de l'analyse pensent, expriment, conçoivent leur technique, on se dit que les choses en sont à un point qu'il n'est pas exagéré d'appeler la confusion la plus radicale... Actuellement, parmi les analystes, et qui pensent ce qui déjà rétrécit le cercle , il n'y en a peutêtre pas un seul qui se fasse, dans le fond, la même idée qu'un quelconque de ses contemporains ou de ses voisins sur le sujet de ce qu'on fait, de ce qu'on vise, de ce qu'on obtient, de ce dont il s'agit dans l'analyse.
Queste parole mi sembrano conservare a tutt'oggi piena attualità.
E' impossibile, in questa situazione, pensare di poter avviare e mantenere un colloquio con le istituzioni. Se mai ci avventurassimo in un impresa simile, anche immaginando di confrontarci con un'autorità istituzionale che sia benevolmente disposta a trasporre in norma esattamente ciò che per gli analisti stessi è il loro statuto, alla domanda: secondo gli psicanalisti, quando uno psicanalista può dirsi tale? questi ultimi non sarebbero in grado di dare una risposta concorde.
E' quindi necessario intraprendere, in primo luogo, un tentativo di enucleazione, da parte degli psicanalisti stessi, almeno di quelli che essi considerano essere i caratteri essenziali della formazione dell'analista. Senza questo sforzo, a mio avviso, non solo è del tutto impossibile un rapporto con le istituzioni, ma è messa in pericolo l'esistenza stessa della psicanalisi, il che è ben più grave.
L'attuale sistema di regolamentazione delle professioni è sicuramente poco adatto alle esigenze poste dalla psicanalisi: tuttavia lo stesso non è né il solo possibile, né tanto meno il migliore ipotizzabile.
Al contrario, l'iniziativa intrapresa dal Ministero di Grazia e Giustizia mostra come, anche a livello istituzionale, si sia ingenerato il convincimento della necessità di un profondo e radicale ripensamento del sistema.
La scelta che attualmente si pone agli psicanalisti è fra il partecipare attivamente e propositivamente alla costruzione di ipotesi di regolamentazione, accettando il confronto con le istituzioni e cercando di porre in evidenza le esigenze legate alla specificità della psicanalisi, o il rinchiudersi nel proprio circolo a proclamare a gran voce l'impotenza del diritto a regolamentare la psicanalisi. E ciò fino a quando verrà promulgata una legge che fisserà principi applicabili a tutte le professioni. A quel punto, se la norma non sarà ritenuta soddisfacente, non si creda di poter ottenere che lo Stato aggiunga la postilla con l'eccezione della professione dello psicanalista.
Le tecniche del diritto offrono le più ampie possibilità di concepire regolamentazioni nuove. Non voglio con ciò dire che esse troverebbero facile accoglimento istituzionale: eventuali ostacoli sarebbero tuttavia di tipo politico e non giuridico.
Una cosa è certa, il punto di partenza dev'essere quello della determinazione, in seno al movimento psicanalitico, degli obiettivi di professionalità che si vorrebbero raggiungere, e dei requisiti minimi che concordemente si ritiene debbano essere posseduti da chi pratica la psicanalisi, per ritenere raggiunti detti obiettivi di professionalità. Questo è in linea tanto con la tecnica di normazione attualmente prevalente in sede comunitaria, quanto con la posizione adottata in seno al Ministero di Grazia e Giustizia.
In sintesi: la tecnica giuridica consente soluzioni estremamente varie, e molto raffinate, come mostra la storia del diritto, dai tempi di Roma ai giorni nostri. Gli psicanalisti si sforzino di oggettivare i principi della loro formazione; ciò creerà le condizioni, per i giuristi, di iniziare a lavorare intorno ad ipotesi normative adeguate.
Mi auguro che il presente lavoro possa contribuire al superamento della posizione, tanto diffusa tra gli psicanalisti, di considerare la questione della regolamentazione della psicanalisi sic et simpliciter come cosa impossibile, e che possa inoltre stimolare il confronto nella ricerca comune di soluzioni giuridiche conciliabili con lo statuto dell'analista. Per il bene della psicanalisi.