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Dentro i media: quale Psicologia?

di Alessandro Meluzzi, pubblicato il 04/04/2008, fonte Simposio, Anno 4, Numero 1, Aprile 2008

tag: psicologia, media, televisione, giornali

Da qualche tempo vivo l'avventura, talvolta stimolante ed eccitante, talvolta fisicamente logorante (dati i molteplici spostamenti che comporta), di comparire come ospite in alcuni programmi televisivi targati RAI. Fondamentalmente è richiesto di esprimere un parere professionale su casi di cronaca, oppure di commentare modi di vivere, modi di essere e di relazionarsi. Certo si tratta di grandi occasioni per poter comunicare le proprie impressioni e le proprie riflessioni a un vasto pubblico, altrimenti difficilmente raggiungibile in termini puramente quantitativi. Ma a chi mi chiede se mi piace andare in televisione, sono solito dire che la tv mi permette di esprimere e condividere contenuti secondo una modalità non troppo dispendiosa in termini di tempo e di organizzazione mentale. Se dovessi infatti comunicare per via scritta (ad esempio in rubriche cartacee) quanto ho l'occasione di poter riferire verbalmente in tv mi occorrerebbero giornate da quarantotto o anche settantadue ore.

E' ovvio che non si può paragonare la pregnanza di un libro a un effimero scambio di battute all'interno del tubo catodico o dello schermo al plasma, ma quando il dialogo (o meglio il monologo) con i telespettatori diventa quasi quotidiano, come avviene nel mio caso, allora si tratta di tessere un filo invisibile, ma saldo e resistente, con un pubblico che comincia a collezionare molte mie parole, molti miei sguardi, molte mie emozioni fino a estrarre da tutto quello i miei modi di rispondere, i miei modi di pensare, i miei modi di propormi. E quello resta. Resta dentro le persone che si aspettano che tu sia proprio quella persona e quel professionista che porta quei contenuti e che assume quel particolare ruolo nel dibattito: un punto di riferimento dai contorni ben delineati che gli spettatori avvertono come familiare e quasi tangibile, pur nella sua virtualità e nella sua lontananza fisica.

Allora è più gratificante apparire e parlare in tv, scrivere un buon libro, firmare una rubrica su un settimanale o un mensile, o ancora mettere on line le proprie meditazioni? Di fatto ognuno di questi è un medium, di per sé né migliore né peggiore degli altri. Conta piuttosto la motivazione e la disposizione d'animo con cui ci accingiamo ad affrontare la 'sfida multimediale', e contano i messaggi che vogliamo trasmettere. La psicologia è un buon messaggio? Credo davvero di sì, credo molto in questa sorta di 'alfabetizzazione psicologica' che dai test di Spaltro (quella che definirei la 'protoalfabetizzazione psicologica') in poi ha edotto gli italiani su una frontiera della conoscenza ancora sconosciuta al grande pubblico: la conoscenza di sé e la conoscenza dell'altro. Purché ovviamente non diventi - in mano nostra o in mano altrui - quella 'psicoanalisi selvaggia' da cui già Freud ci aveva messo legittimamente in guardia.

E' meglio che la gente sappia cosa sia la depressione post-partum, meglio che sappia cosa sia l'anoressia o il bullismo, però vigiliamo anche - come esperti della materia e idealmente come suoi numi tutelari - su come passino questi concetti attraverso la lente talvolta deformante dei media, su come vengono divulgate queste nozioni attraverso i vari mezzi d'informazione. Quando possibile utilizziamo allora i media per fare formazione alla psicologia e informazione sulla psicologia, anzitutto facendo buona psicologia quando partecipiamo a un talk, o scriviamo un articolo su un quotidiano. Ne gioveremo noi come categoria e ne gioverà chi avrà la pazienza di leggerci o di ascoltarci.

Ma chiediamoci anche e soprattutto quanto il mondo dei media abbia cambiato il metodo, la prassi e i contenuti della psicologia e della psicoterapia. La divulgazione, ma anche la continua discussione pubblica su questi temi ha reso concetti piuttosto oscuri (come 'complesso', 'nevrosi', 'edipo'…) oggetti di un chiacchiericcio ininterrotto; così come la superficiale diffusione di conoscenze anche molto tecniche, come quelle provenienti dal mondo delle neuroscienze, che chiunque può scaricare da internet credendo di poterle assimilare fino in fondo con un click, contribuisce a banalizzare il nostro sapere, così come fosse possibile improvvisarlo. Ogni lettore, ogni spettatore e ogni internauta si sentono un po' psicologi, un po' neuropsichiatri, un po' criminologi, un po' neurofarmacologi e si improvvisano professionisti della mente sulla soglia del bar sotto casa o alla fermata dell'autobus.

Per concludere: abbiamo la psicologia nei media, ma anche i media nella psicologia e questo cambia anche alcune delle definizioni tradizionali della psicopatologia classica, che per esempio attribuiscono alla nevrosi la consapevolezza di malattia e alla psicosi la sua assoluta inconsapevolezza. Oggi abbiamo pazienti sicuramente psicotici che vengono dallo psichiatra o dalla psicologo dicendo: 'I sintomi produttivi sono ripresi: non sarà meglio ripassare dagli antidepressivi atipici a quelli tipici, dalla clozapina al vecchi aloperidolo?' Ma allora questa psicosi che psicosi è? Ma sopratutto questo psichiatra, o psicologo, o psicoterapeuta, che professionista è diventato? Qual è il suo ruolo oggi?

Come ben si vede c'è un gran disordine sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente. Purché non manchi mai l'amore e il rispetto dell'uomo nella sua totalità, unica e principale fonte di Verità.



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