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Psicoanalisi selvaggia?

di Mario Ajazzi Mancini, pubblicato il 16/12/2003, fonte Simposio n° 03, Primavera 1995

tag: psicoanalisi, psicoanalisi laica, selvaggia, regolamentazione

Quando Freud, agli inizi degli anni trenta, terminava la trentunesima lezione di introduzione alla psicoanalisi con le famose parole 'Wo Es war, soll Ich werden', non immaginava certo che sulla base del proprio assunto, avrebbe potuto costituirsi un criterio discriminante rispetto alla future sorti della propria disciplina.

'Dove era l'Es, deve subentrare l'Io -recita la traduzione italiana- è un'opera di civiltà (Kulturarbeit), come ad esempio il prosciugamento dello Zuyderzee'. Se leggiamo bene questo passo, possiamo ritenere, con un certo margine di verosimiglianza, che, nella mente di Freud, la Kultur, pur presentandosi come bonifica non aveva certo assunto il carattere lineare dell'irrevocabile; si configurava piuttosto come una sorta di produzione critica che chiamava in causa la medesima forma di sapere che egli stesso aveva messo in gioco.

Tuttavia, il detto freudiano, che intendeva dar vita ad un ampio progetto di disvelatezza, è stato interpretato, nel corso degli anni, come una rigida opposizione, una scansione bipolare, per cui l'Io deve confrontarsi con l'Es, opporsi a quel regno dell'irrazionale, da cui proviene la minaccia di forza 'selvagge e ribelli'. Una metafora è presa alla lettera, e la definizione della cosa psicoanalitica diviene la misura della sua determinazione in rapporto alla politica interna, nonché agli affari esteri. L'Io assume quindi il ruolo di una doppia protezione, verso l'interno e l'esterno, che lo assimila all'istanza di controllo: l'Io/Super-Io che prescrive e proscrive, discrimina usi ed abusi della psicoanalisi come psicoterapia.

Si comprende così, come, all'interno di un certo ambito, abbiano potuto ergersi bastioni di sbarramento nei confronti del pericolo di un'altra invasione, altrettanto irrazionale e 'selvaggia': da parte di coloro che, indipendentemente da uno specifico apprendistato tecnico e teorico -tale è il significato che Freud ha attribuito all'espressione 'Wilde' Psychoanalyse- pretendono di accedere al dominio della legalità, all'io come custode della psiche, con la stessa precipitazione, irruenza e cecità che era stata riscontrata nelle oscure forze dell'Es.

Affari interni ed esterni si trovano quindi accumunati sotto il segno dell'incolto, dell'incivile, del barbaro o del primitivo -tutti i significati ammessi dal tedesco wilde. Si prospetta allora l'opera, il lavoro della loro Zivilisation, di quell'elaborazione 'lunga e faticosa' che fa dell'analisi non solo un complesso di teorie psicologiche centrate attorno ad una particolare metodica, ma soprattutto il tentativo di tener testa al disagio che coglie ogni essere umano di fronte alla propria singolarità, all'interno di quel sistema di relazioni che è soliti definire come 'società o civiltà' -das Unbehagen in der Kultur, il disagio è della cultura medesima, indica Freud nel titolo di uno dei suoi scritti più noti. Come non avvertirlo in questa sorta di passaggio all'atto che l'accentuazione della funzione discriminante dell'Io sembra pretendere dalla psicoanalisi? Dalla Natura alla Cultura, alla Razionalità di una sfera senza conflitti- secondo un dettato superegoico, la cui interpretazione mostra la medesima irregimentabilità della disciplina.

Infatti, Freud ha più volte ribadito che se la psicoanalisi può estendere il proprio dominio a quelle produzioni di significato per cui non si dispone di libere associazioni (come vorrebbe la metodica in senso stretto), ciò vuol dire che il suo apprendimento esige innanzitutto una formazione plurale e laica.

Come a dire che se la psicoanalisi mette in opera un processo di costruizione nei confronti del soggetto, sul fondamento storico dei suoi rapporti concreti, lo fa proprio in quanto non chiude su di esso come 'oggetto', ma ne caratterizza lo statuto in quella prospettiva aperta di cui l'Ich werden non è che la attestazione. L'Io, o meglio, il soggetto stesso (è ciò che) deve divenire, costituirsi come mai definitivamente compiuto in relazione alla medesima Kultur che ne specifica il limite.

Simile apertura può condurre ad una riconsiderazione della così detta 'analisi selvaggia'. La lettura del testo freudiano indica, infatti, che non si tratta tanto di errore o di ignoranza (il transfert deve essere stabilito ed il rimosso non può essere comunicato che nella sua prossimità alla coscienza), piuttosto di quella analisi che vede, o crede di vedere, nel suo steso parere, teorico o tecnico (se è possibile una distinzione di sorta), la giustificazione e la legittimazione della propria autorità, del potere che le compete come passaggio all'atto.

Con ciò non si intende affatto sminuire la portata della 'didattica' (tout court dell'analisi personale), soltanto situarla all'interno dello stesso contesto che Freud le aveva assegnato relativamente alle domande che suscita: die Frage der Laienanalyse, che non significa soltanto l'eventuale discriminazione tra medici (psicologi?) e non medici, e la possibilità per questi di professare la psicoanalisi, come sembra intendere la traduzione di Musatti: 'Il problema dell'analisi condotta da non medici'; ma, piuttosto, la questione, il problema, il dubbio cui ci confronta la medesima analisi in quanto profana. Laienanalyse non vuole dire analisi 'selvaggia', tanto meno 'abusiva'. Questo termine esprime, per Freud, innanzitutto una determinazione a mettersi in gioco, ad esporsi, a non dare niente per scontato rispetto a quanto si presume di sapere, alla singolarità della propria formazione, al di là di ogni garanzia che essa potrebbe fornire all'interno del suo stesso esercizio.

In tal senso, la questione dell'analisi profana viene a cogliere la posta di quella selvaggia: ne svela le supposizioni, non all'interno della violenza di una singolarità errante che si autorizza da sola, piuttosto in quella volontà di legittimazione che mira ad istaurarsi come principio di professionalità -l'Io legislatore che soppianta, fa sloggiare l'Io del divenire, il soggetto nel medesimo processo della sua costituzione.

Chi è allora lo psicoanalista? Un profano che viola la sacralità egoica in nome di una laicità che deve essere definita dalla stessa posizione soggettiva che assume?

Lacan, in un famoso scritto del 1955, parlava a proposito di una 'questione pipistrello'. Come nell'apologo di La Fontaine, il pipistrello, davanti al divoratore di ratti, diceva di essere un uccello e davanti al divoratore di uccelli, di essere un ratto. Lo psicoanalista: una sorta di essere misto. Uno che davanti all'altro dice di essere l'altro che è, confermando la propria definizione come indefinibile. Se non c'è unità che doppia, si deve esigere la risposta da una discriminazione che faccia del due l'uno. Da parte di un altro, quindi, che rivolge allo psicoanalista quella stessa domanda che lo chiama in causa per una competenza, un sapere ed una autorità che proprio la sua posizione soggettiva dovrebbe sconfessare. Come a dire che l''Io-psicoanalisi', credendo di disporre di risposte appaganti, di criteri sempre validi, è un Io soggetto allo scacco dell'immaginario, all'illusione di un saperci fare pronto per ogni evenienza.

Per Freud le grandi conquiste dell'uomo sono tali perché parziali, mai definitivamente compiute: 'bisogna accontentarsi -dice- di buon grado di alcuni (...) principi di fondo di cui quasi non (si) riesce a farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada facendo e ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri'. In tal senso, l'operare umano non è che una 'formazione di compromesso' dallo statuto precario, talvolta efficace, dal momento che il disagio s'attesta sempre sullo sfondo di ciò che siamo portati a ritenere, di volta in volta, la nostra stessa realizzazione. E se non ne teniamo conto, la nostra miopia finisce per diventare la cecità di Edipo, la cui inchiesta lo porta ad identificare, nel giudice, la stessa identità mostruosa che deve essere bandita, perché la città, la patria, ritornata pura, sia salva...



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